OGR “Voices” – Officine Grandi Riparazioni
OGR “Voices” – Officine Grandi Riparazioni
OGR “Voices” è un progetto VFY che prevede la realizzazione di un documentario che sarà realizzato tramite montaggio digitale di fotografie scattate prima che iniziasse il recupero architettonico ed ambientale delle OGR – Officine Grandi Riparazioni a Torino. Alle fotografie sarà abbinata una particolare colonna sonora, quale integrazione di un tessuto comunicativo che avrà il compito di conferire alle immagini voce, significati ed emozioni.
Il soggetto “OGR” è l’edificio ad H, cuore delle ex Officine Grandi Riparazioni delle Ferrovie dello Stato nella citta’ di Torino, chiuso negli anni novanta e a suo tempo svuotato ed abbandonato in attesa di demolizione (per fortuna non attuata) o di una futura consona destinazione d’uso.
In effetti, l’edificio era di una bellezza inviolata, se non per le condizioni in cui lo avevano ridotto oltre un decennio di abbandono e di visitazioni di disperati senzatetto, di tossicodipendenti, di adepti a sette di ispirazione mistica.
Esternamente si presentava con lo stesso fascino architettonico di quando, nella seconda metà ottocento, fu costruito. La nuova sistemazione urbanistica lo ha reso accessibile appieno e, con l’apertura del tratto di corso Castelfidardo, che va da corso Peschiera a corso Vittorio Emanuele II, dal 2007 se ne può ammirare la costruzione da vicino.
L’ispirazione del progetto per la realizzazione del documentario OGR “Voices” è emersa così semplicemente, come un normale adempimento di un impegno, assunto durante le riprese fotografiche effettuate nel 2007 all’interno della struttura.
Era destinato a divenire un compito da eseguire come sotto dettatura: a richiederlo erano i sommessi bisbiglii di voci chiaramente percepite come provenienti dall’interno della struttura, quando era ormai svuotata. Non c’era più nessuno all’interno. L’intervento delle forze dell’ordine aveva provveduto ad allontanare gli “inquilini abusivi” che per anni vi si erano insediati. All’esterno si completavano i lavori di muratura degli ingressi e della sigillatura delle finestre, atte ad impedire nuove occupazioni.
Nel 2007 passavo davanti alle OGR tutte le mattine. Non passava giorno che, magneticamente, volgessi lo sguardo verso l’edificio ad H, come a salutare delle antiche amicizie. Ma un mattino di fine marzo, i miei sensi furono totalmente invasi da un richiamo che era divenuto fortissimo. Una presenza, complessa e implorante, mi spingeva alla necessità di un incontro che non era più procrastinabile.
Ero alla guida della mia auto e cercavo, provavo a proseguire, ma la mia mente tornava lì, alle OGR. Il magnetismo del richiamo era troppo forte. E non da una sola voce, ma da più voci sovrapposte. Così, meccanicamente, al primo incrocio sono tornato indietro, ho parcheggiato l’auto e mi sono avvicinato all’edificio nella direzione da cui provenivano le voci.
L’ultima porta da murare era lì, spalancata, ancora per poche ore, prima che fosse chiusa.
Una volta entrato è stato una ubriacatura di sensazioni ed uno sconvolgimento di meraviglia e sofferenza: il corpo di un vecchio glorioso gigante, lasciato imputridire nell’incuria. Straordinarie strutture a cui hanno stracciato ed infangato gli abiti con violenza.
Lentamente un sommesso brusio di voci si fece spazio nelle mie orecchie, sino a divenire un vero e proprio lamento, implorante, nel suo disgusto arrabbiato per i calcinacci, le feci, i crolli, i resti di fuochi, lo stato di abbandono più selvaggio che hanno reso quel luogo, da condensato di operoso lavoro e di fiduciosi sacrifici, a latrina post-bellica.
Ero solo a vagare. C’era un certo andare-vieni degli “inquilini” residui: non era una situazione in cui poter fare riprese fotografiche in sicurezza.
Ma la porta di ingresso che stava per essere murata non dava altre possibilità e, in preda ad una maniacale necessità di documentare il più possibile, misto alla paura di una potenziale aggressione da parte degli sbandati che circolavano, resistetti, fotografando d’impeto e senza pensare, come quando si è costretti a bere un bicchierone tutto d’un fiato.
Mi sentivo come fossi divenuto la mano di una entità che operava sulla macchina fotografica, sospingendomi in un percorso del tutto sconosciuto. Scattavo e basta, senza regole e tecnica.
Al momento in cui ero tornato fuori, riprendevo il respiro: avevo nella macchina fotografica circa 200 scatti. Con la testa in subbuglio, agitato e confuso, ho dovuto attendere qualche ora prima di riappropriarmi della mia razionalità.
Solo a sera “vidi” (non “rividi”) le foto che avevo raccolto. Con la visione delle immagini tornava il ricordo del brusio, dando spazio ad una irrequietezza che non mi fece dormire, quella notte.
Il mattino dopo, nonostante il fondato timore di aggressioni, non potevo fare diversamente che tornare nell’edificio: i muratori avevano iniziato a murare la porta.
Fui nuovamente ingoiato dentro.
La macchina riprese a fotografare. Il percorso lungo cui fui sospinto era più articolato ed andava più in profondità.
Sentivo dentro di me il silenzio assordante della paura farsi spazio tre il susseguirsi di echi di voci che, lungo le pareti, mi portavano sempre più dentro.
Uscii, riappropriandomi delle mie mani, con la mente che faticava a rimanere razionale.
Bastava.
Almeno per quello che sentivo essermi impegnato per mostrarlo “fuori della caverna”.
Gaetano Toldonato
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